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UNITA' DI PRODUZIONE MULTIMEDIALE di Sergio Giusti

"Documentazione performativa" incentrata sul lavoro di musicisti all'opera in un ex stabilimento milanese. Un ibrido tra musica, performance, video-arte e documentario, ambientato in una vera e propria 'Factory', che vede tra gli altri il coinvolgimento di gruppi come Baustelle, Afterhours, Verdena, Zen Circus.

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pubblicato il 14/04/2013
Trenta tavoli, trenta leggii, uno spazio industriale. Sessanta musicisti in tuta blu coordinati da un capo-reparto. Sessioni di composizione ed esecuzione di dieci minuti alternate in turni da un’ora. Otto ore di lavoro con una pausa pranzo e 4 pause da 20 minuti durante l’orario lavorativo. Trenta musicisti scrivono sugli spartiti, gli altri trenta aspettano in silenzio. Finita la sessione di composizione, ciascuno riceve uno degli spartiti appena prodotti. Tutti gli spartiti vengono eseguiti contemporaneamente in una sorta di interplay improvvisato. Il complesso delle reazioni alla fatica e allo stress, ma anche le impressioni e le riflessioni che si svilupperanno nel corpo e nella mente dei partecipanti costituiscono il nodo centrale dell’esperimento. I musicisti non devono poi avere il plus motivazionale dell’esibizione perché l’operazione è senza pubblico. Questa, in sintesi, la parte performativa del progetto Unità di produzione musicale, in acronimo UPm. Qualcosa a metà strada fra Cage e gli esperimenti psicologici di Stanford e Milgram.
Cosa succederebbe se una performance del genere avvenisse davvero? Questa più o meno la semplice domanda che il musicista Enrico Gabrielli (Calibro 35, Mariposa) e io, che mi occupo invece di fotografia e teoria dell’immagine, ci siamo fatti mentre ragionavamo sull’importanza della parte progettuale e processuale del lavoro artistico, spesso misconosciuta o sottostimata. Se la domanda è semplice, la risposta invece ha la complessità dei problemi aperti. L’unica possibilità per provare a rispondere è tentare di fare davvero questa performance. Essendo però fondamentale che la cosa avvenga a porte chiuse e dovendo seguire tutto - non solo la musica, ma anche ciò che umanamente si dovesse produrre - l’idea si è subito focalizzata anche in senso visivo: la ricerca del metodo più adatto per analizzare l’esperimento è coagulata intorno alla forma del documentario d’osservazione. Una squadra di filmmaker (Enecefilm.com) registrerà tutto senza intervenire o intervistare, e lo stesso girato avrà carattere performativo. I documentaristi saranno anch’essi in tuta (bianca) e fatalmente finiranno per entrare nelle inquadrature. Faranno parte quindi in pieno del processo relazionale di UPm.

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La composizione dei musicisti-operai è bilanciata fra personalità note e meno note, fino a persone semisconosciute. Questo per mettere alla prova il livellamento dovuto alla produzione in serie e osservarne le conseguenze. Anche il livello di preparazione musicale sarà differente: chi verrà da studi di composizione sarà accanto a musicisti dell’ambiente rock, abituati a un approccio istintivo alla musica. Alcuni addirittura potrebbero essere digiuni di qualunque preparazione musicale. Un progetto dunque aperto: nessuna tesi preconcetta da dimostrare, solo comportamenti da osservare. UPm non è un’inchiesta, sarà un lavoro artistico ibrido fra musica, performance, video-arte e documentario. Chi pretende significati univoci da un’installazione, da un’opera video, da un progetto fotografico?
Proprio il carattere ibrido, aperto e collettivo di UPm ha anche prodotto l’idea di finanziamento dell’opera. I costi di realizzazione, le spese vive, sono ingenti, e trattandosi di qualcosa che coinvolge un grosso gruppo di persone fra ideatori, realizzatori e performer, la naturale conseguenza ci è sembrata quella di provare a raccogliere fondi tramite una sorta di azionariato diffuso, piuttosto che tentare la strada di un contributore istituzionale. La raccolta sta avvenendo quindi con il metodo del crowdfunding, il sistema di finanziamento in rete che, alla contribuzione con quote differenti, risponde con una serie di ricompense legate al progetto. Il punto in fondo è: questo esperimento ti sembra curioso, importante, degno di essere realizzato? Fanne parte anche tu, entra nel collettivo come piccolo produttore. La quota da versare non è però a fondo perduto, in cambio si riceverà sempre qualcosa: può essere il prodotto finale, ovvero il DVD del documentario, oppure qualcosa di più legato alla performance, come uno degli spartiti prodotti o una delle tute usate dai performer, in una logica di condivisione tipica della rete. Un sistema che, è inutile negarlo, appartiene più alla mentalità statunitense, abituata (non voglio sindacare sul perché) a entusiasmarsi e premiare le idee, che alla nostra indole più diffidente…
Se avete curiosità o interesse verso il progetto, qui potete trovare un teaser-video e maggiori informazioni.

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