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FRAME

PUNCTUM di Fabio Piccini

Un progetto di salute mentale.

pubblicato il 12 aprile 2011

foto di Rita P.

“La fotografia è la mia ancora di salvataggio. Mi sono sempre rivolto alla fotografia per dare letteralmente sfogo ai miei pensieri, alle mie visioni, ai sentimenti, alle emozioni. Spesso mi capita di dover spiegare cosa sia per me la fotografia ed altrettanto spesso inciampo nel darne una definizione ben precisa. Quello che so, da fotografo e da uomo, è che ogni qualvolta utilizzo la macchina fotografica qualcosa di molto semplice, e forse altrettanto prezioso accade dentro di me …”. Con queste parole Antonello Turchetti ci introduce al suo volume Punctum. In-visibili ritratti, testimonianza di un progetto nato a Perugia e proseguito con una mostra itinerante realizzata in collaborazione con la Cooperativa Sociale BorgoRete nel 2009, grazie al patrocinio della Regione Umbria.
Antonello è un fotografo free-lance che, a un certo punto della sua carriera, grazie all’incontro con un’operatrice sociale, entra in contatto con il mondo della malattia mentale: “… ricordo che all’inizio non sapevo cosa dire, come comportarmi, mi sentivo imbarazzato dinnanzi alla malattia, avevo paura di incrociare sguardi assenti. Provavo disagio. Poi, lentamente, una umiltà ed una gestualità quotidiana hanno fatto crollare ogni mio pregiudizio. Intrecciando la fotografia e la salute mentale ho elaborato e strutturato il progetto di un laboratorio rivolto a chi, per esperienza di vita, ha difficoltà a comunicare la propria condizione di essere umano …”.
E’ così che ha deciso di insegnare a utilizzare la fotografia come mezzo di affermazione della propria personalità ad alcuni pazienti ospiti di una struttura riabilitativa psichiatrica, affinché questi la usino come linguaggio per comunicare all’esterno la propria condizione e il proprio disagio.
Partendo dal presupposto che, per realizzare le immagini, il fotografo è costretto ad uscire da sé e a stabilire un contatto con la realtà utilizzando il proprio mondo interno come tramite, Antonello decide di aprire un laboratorio di fotografia per insegnare a un gruppo di pazienti (Cecilia, Rita T., Rita P., Debora, Corinna, Simone, Franco e Giacomo) ad usare la fotocamera come veicolo di comunicazione per esprimere emozioni e pensieri. Come? Invitandoli a fotografare tutto ciò che colpisce la loro attenzione nel corso di alcune uscite di gruppo.
Stimolati dai suggerimenti di Antonello, i pazienti puntano l’obiettivo sulla realtà circostante, ma anche su se stessi, scattandosi autoritratti e fotografandosi l’un l’altro. Lo stesso Antonello interviene poi con alcuni “ritocchi”. Dalle immagini fuoriuscite da questo processo si ricavano, a mio avviso, due diversi punti di vista: la visione del mondo degli autori materiali delle foto, ma anche quella di chi ha proposto l’esperienza. E sono visioni inconsuete, originali, vibranti di colore e movimento, fresche e naturali.


foto di Giacomo

Che Antonello abbia trasmesso ai suoi allievi insieme ai suoi insegnamenti anche una parte di sé è fuori di dubbio, ma la cosa affascinante è come questa parte sia stata assimilata, trasformata e riproposta dai suoi allievi nelle loro opere. Il progetto ha così raggiunto il risultato atteso: dare voce, mediante la fotografia, a persone che non riescono più a farla sentire. E’ poi seguita una mostra, la mostra ha partorito un catalogo e il successo di entrambe ha dato i natali a una associazione. “… Ho scelto Punctum come titolo perché, come viene suggerito da R. Barthes nel suo saggio sulla fotografia La Camera Chiara viene definito: un dettaglio che giunge a sconvolgere tutta la mia lettura. E’ un mutamento vivo del mio interesse, una folgorazione. A causa dell’impronta di qualcosa, la foto non è più una foto qualunque. Questo qualcosa ha fatto tilt, mi ha trasmesso una leggera vibrazione …”.
Non potrebbero esserci parole più adatte a esprimere tanto la leggerezza quanto l’efficacia del progetto di Turchetti. Al di là del raggiungimento degli obiettivi prefissati e dell’apprezzamento riscontrato dai pazienti che hanno partecipato al laboratorio, questa esperienza rappresenta un valido esempio di come si possa fare tanto (bene) con poco (sforzo, anche economico) nel campo della fotografia terapeutica.
L’idea di introdurre un laboratorio di fotografia in un progetto di riabilitazione psichiatrica non è nuova; la trovata di guardarsi fuori per ri-vedersi dentro è infatti un topos ben noto che ha dato luogo, per esempio, a memorabili reportage nelle più diverse strutture manicomiali del pianeta (vi basti sfogliare i cataloghi degli ultimi dieci anni del World Press Photo per verificarlo). Eppure quante strutture psichiatriche conoscete che facciano uso attualmente di questi metodi a scopo terapeutico? Pochissime o, più probabilmente, nessuna.


foto di Cecilia

Non ne conosco i motivi, ma forse se qualcuno di voi, dopo essersi documentato un po’ sul metodo, andasse seriamente in giro per i Servizi di Salute Mentale a proporre un’idea del genere potrebbe trovare ascolto. In questo senso, dopo aver presentato su questa rubrica diversi esempi sui possibili utilizzi della fotografia terapeutica, mi piacerebbe conoscere opinioni ed eventuali esperienze dei lettori su progetti e idee praticabili in questo ambito.
La fotografia terapeutica permette un ampio ventaglio di opportunità in grado di rinnovare la pratica fotografica e le esperienze relazionali che ne derivano. Questa potrebbe essere una buona occasione per approfondire insieme il tema e far crescere le sue potenzialità.

se desiderate commentare questo articolo scrivete a fabio.piccini@mac.com

Articoli precedenti:
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