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CONVERSAZIONE CON GIANFRANCO MARANIELLO a cura di Roberto Maggiori

Un'interessante e approfondita intervista al direttore del MAMbo di Bologna

pubblicato il 28 aprile 2010
MAMbo sta per Museo d’Arte Moderna di Bologna. Il Museo nasce nel 2007 come continuazione dell’esperienza pluridecennale della GAM cittadina, ma con ristrutturazioni e cambiamenti profondi, ad iniziare dalla nuova ubicazione che ha spostato il museo dalla periferica zona Fiera ad una più centrale via Don Minzoni.
La sede, l’Ex Forno del Pane edificato a partire dal 1915, è un caso di riconversione d’architettura industriale. Ampi spazi (ben 9500 metri quadrati), biblioteca, bookshop, bar ristorante, sala conferenze e un parco pubblico in fase di ultimazione che ospiterà, oltre ad opere d’arte permanenti, eventi culturali estemporanei non necessariamente legati all’ambito delle arti visive. Insomma il MAMbo si propone come luogo di aggregazione cittadina oltre che di proposta culturale. Non a caso il Museo sorge e fa da collante ad un area di riqualificazione urbana denominata “Manifattura delle Arti” che ha portato nello stesso distretto realtà come il DAMS o la Facoltà di Scienze della Comunicazione, oltre all’importante Cineteca cittadina, al Cassero, spazio culturale dell’Arcigay, e alcune gallerie private.
Di questo e delle dinamiche museali in generale, parliamo ora con Gianfranco Maraniello, direttore del MAMbo.

Roberto Maggiori: Come si finanzia un’attività ambiziosa e onerosa come quella del MAMbo?
Gianfranco Maraniello: Un serio progetto culturale necessita ovviamente di una sostenibilità economica che va costruita anche coinvolgendo partners privati oggi indispensabili per tenere ad alto livello l’amministrazione e la proposta di un Museo.
L’apertura di MAMbo è dovuta al grande sforzo dell’amministrazione pubblica che si è occupata del recupero dell’edificio che lo ospita e di buona parte dei finanziamenti per la sua attività, ma lo sforzo per la sua sostenibilità è dato anche da altri soggetti legati al territorio come la Regione Emilia Romagna e le Fondazioni. Questo significa aver portato il contributo economico della spesa corrente del Museo da 100% comunale a 50% comune e 50% altre partecipazioni. Questo è un modello importante di cooperazione pubblico-privato di finanziamento e incentivazione alla produzione culturale.

RM: Dalla GAM al Mambo, cosa è cambiato?
GM: Io credo che lo specifico interessante di questo Museo sia la capacità di stare insieme a un fenomeno più ampio che è quello della contaminazione dei saperi e della ricerca che stiamo cercando di costruire assieme alla Cineteca di Bologna, all’Università e agli altri soggetti che costituiscono la Manifattura delle Arti.
Altra cosa importante da sottolineare è che Mambo nasce non come modello di Museo destinato ad accogliere un patrimonio che pure esiste, MAMbo è soprattutto un centro di produzione culturale. Rrealizziamo mostre, una collezione e promuoviamo una produzione di opere appositamente commissionate da noi. Questo è un aspetto fondamentale perché qualifica un’attività sperimentale e laboratoriale a diversi livelli che è nella vocazione di Bologna.

RM: Quali strategie adottate per promuovere l’attività del museo e quali sono gli artisti italiani su cui il MAMbo punta in particolar modo?
GM: Ti faccio un esempio molto concreto: Unicredit ha creduto in MAMbo proprio per la sua idea di lavorare sull’innovazione e sulla particolare attenzione al territorio, che per quello che riguarda la collezione non è solo Bologna, ma è l’Italia, mentre per quanto riguarda gli eventi e le politiche espositive e di promozione culturale si è puntato sulla capacità di dialogo internazionale. La Fondazione ha visto un possibile vantaggio nel cooperare con un soggetto che andava in questa direzione e quindi ha deciso di proporci una sorta di alleanza strategica non solo per l’acquisizione di opere d’arte, ma anche per la produzione di lavori di artisti italiani impegnati in mostre e partecipazioni importanti per le loro carriere come le Biennali ecc. Unicredit elargisce un sostegno economico per la realizzazione di questi progetti ambiziosi attraverso una vera e propria partnership col MAMbo che offre la propria consulenza scientifica e individua i progetti che vengono condivisi dalla Fondazione. Unicredit finanzia senza nessuna speculazione perché la collezione realizzata dalla banca viene ceduta in comodato d’uso al Museo che non ha altro fine che mostrarla gratuitamente al pubblico rafforzando anche il valore intrinseco delle opere che hanno alla fine una destinazione museale. L’idea non è dunque soltanto quella di seguire dei percorsi critici preferenziali, ma anche di favorire delle occasioni espositive per i nostri artisti.
Questa alleanza strategica, che tra l’altro rispetta i valori del mercato (non si scavalca l’attività delle gallerie e quindi il valore delle opere che sono anche sostenute dal mercato privato, che non è da demonizzare, anzi è stato un grande sostegno per l’attività artistica italiana degli ultimi quarant’anni), fa si che questo circolo virtuoso diventi una vera e propria agenzia di promozione per l’arte contemporanea italiana.
Mi spiego meglio con un esempio: se un museo italiano decide di organizzare una mostra su un’artista inglese sa bene di poter contare sul sostegno economico e organizzativo del British Council; l’Italia da questo punto di vista è invece deficitaria. Promuovere dunque un meccanismo come quello di cui ho parlato significa anche incentivare la presenza degli artisti italiani all’estero perché è chiaro che sapere di poter contare su una sostenibilità economica favorisce il fatto che curatori internazionali possano invitare artisti italiani, come è avvenuto ad esempio negli anni ’90 per l’arte dei paesi scandinavi che aveva diverse forme di sostegno per la divulgazione dei propri artisti. Credo che riuscire a coinvolgere progressivamente dei privati su questi meccanismi che non hanno finalità speculativa, ma sono fonti di investimento e di responsabilità sociale anche per chi opera nel privato, sia un compito che il museo ha il dovere di esercitare anche con la propria forza istituzionale.
Il museo non dev’essere solo luogo di consacrazione, ma un centro di stimolo alla produzione e al riconoscimento del valore fondante della cultura in dinamiche sociali ed economiche più ampie della gestione di uno spazio espositivo.

RM: Il MAMbo ha assunto il ruolo di collante tra le varie realtà della Manifattura delle Arti, un collante che rafforza le fondamenta su cui si sta costruendo la cultura contemporanea bolognese...
GM: Dici bene. Del resto non può esistere un modello museale che funziona a prescindere dal contesto in cui si trova ad operare, e non avrebbe nemmeno senso. Oggi è importante qualificare la propria attività rispetto alle possibilità esistenti sul campo. Il distretto culturale in cui siamo collocati ci indirizza già su quale possa essere lo specifico del nostro museo.
Facendo del museo una piattaforma di lavoro condivisibile con altri, la nostra progettualità è stata condizionata e spero condizionante per gli altri soggetti che partecipano a questo modo di operare.

RM: La ristruttutturazione esterna dell’edificio si è orientata verso il ripristino della facciata originale, mentre l’interno è stato reso neutro e asettico per non disturbare l’esposizione delle opere d’arte. Il MAMbo si presenta dunque come una galleria funzionale con un’estetica niente affatto invasiva. Cosa pensi dei musei dalle architetture “spettacolari” che privilegiano invece il contenitore sul contenuto?
GM: Sono due percorsi possibili. Il MAMbo è per chi lo dirige estremamente interessante perché consente e obbliga a una progettualità continua che valorizzi gli straordinari volumi dell’edificio e la differenza anche di dimensioni a seconda degli spazi che si creano. Quello che mi piace molto è proprio la possibilità di avere spazi diversi e quindi anche possibilità di allestimento e progettazione non omologate. Siamo finalmente usciti sia dal White Cube, sia dal museo dall’architettura fin troppo condizionante che diventa l’elemento stesso che fonda anche il valore visivo del museo.
Per noi è più comodo e stimolante lavorare così, però capisco anche il ruolo sociale che può assumere l’architettura di facciata come nel caso eclatante dell Guggenheim di Bilbao che vive soprattutto del richiamo spettacolare della sua struttura esterna. In questo caso è però talmente predominante l’identità dell’edificio che la sagoma dell’architettura di Gehry diventa un elemento dominante anche nelle scelte grafiche, nel merchandise e nella comunicazione in generale del museo. Un elemento dominante che va a condizionare la funzionalità del museo ed anche i progetti espositivi.

RM: A questo proposito, come si stanno orientando i musei d’arte contemporanea a livello globale, c’è una tendenza prevalente?
GM: Non ci sono trend prevalenti. O meglio ci sono dei trend, ma esulano dalle dinamiche museali vere e proprie, sono piuttosto fenomeni dettati da una sorta di scommessa sulle nuove potenze economiche. Ne è un esempio l’insistenza sull’arte cinese, e si sta già parlando del prossimo boom dell’arte indiana, così come all’epoca della caduta del muro di Berlino si parlava del nuovo fenomeno dell’arte russa che in realtà non è mai esploso. Sono sostanzialmente dinamiche legate all’apertura di nuovi mercati e bisogna stare molto attenti a queste tendenze annunciate che sono il risultato di una speculazione. Poi è ovvio che in un territorio talmente vasto come quello cinese ci saranno tendenze che si consolideranno nel tempo a fronte di tante cose che mostreranno la loro pochezza e irrilevanza.

RM: Quale dovrebbe essere il ruolo di un museo d’arte contemporanea?
GM: Far capire Innanzitutto che l’arte contemporanea va pensata prima che vista. La funzione di un museo dovrebbe essere per definizione didattica nel senso di avvicinamento non agli esiti, ma alle pratiche della ricerca artistica. Non a caso la mostra inaugurale “Vertigo”, che ha varato in modo emblematico l'attività del museo, intenzionalmente non è stata una mostra esaustiva.
La grande mostra tematica, dal mio punto di vista, deve porsi come mostra di metodo, di avvicinamento al modo in cui si fa l’arte contemporanea. Il mio sogno di curatore è quello di pensare al visitatore che dopo aver visto la mostra abbia voglia di saperne di più e possa pensare negli incontri che poi farà altrove: ma quel quadro, quel film, quella performance, quell’istallazione, ben ci sarebbe stata in una mostra che ha tentato di raccontarmi la necessità che ha l’arte di ripensarsi alla luce della progressiva e sistematica introduzione degli strumenti di comunicazione tecnologica nel proprio ambito.
L’arte ovviamente non è solo comunicazione, ma ha bisogno di verificare il proprio specifico anche alla luce della progressione dei media, degli strumenti, in questo senso l’arte è sempre off media, perché si riconfigura in relazione alle nuove forme espressive, ma attraverso la meditazione e l’appropriazione degli strumenti, finalizzata ad un ripensamento, inquadramento e riorientamento di senso. “Vertigo” vuole essere proprio questo: l’arte non solo contaminata, ma l’arte che si trova nella necessità di ripensare il proprio senso in un mondo tutto mediale e tutto mediato, un mondo in cui le forme stesse della percezione sono condizionate dagli strumenti di comunicazione che sono le nostre protesi.
Questo è il senso più profondo di “Vertigo”, un’arte che coincide con quel livello di autocoscienza che l’arte sviluppa nell’ultimo secolo e che la porta a realizzarsi nel momento in cui riflette su se stessa. Non è un caso che quasi tutta la manualistica e la pubblicistica faccia risalire la svolta dell’arte contemporanea a Marcel Duchamp emblema di un arte sostanzialmente concettuale. Duchamp è si l’autore dei ready made, ma è anche uno dei primi autori che si è cimentato con la sperimentazione cinematografica, che ha fatto del proprio corpo un opera d’arte, che è diventato il soggetto stesso della propria opera o che ha abbandonato il “fare”. Duchamp non è dunque soltanto l’autore celebre del Ready Made, cioè della ricollocazione e riconfigurazione del valore dell’oggetto della produzione industriale, ma, come sostiene un mio amico, è l’artista che mentre posiziona l’Orinatoio in un contesto espositivo, in fondo sta usando lo spazio dell’istituzione museale come lo spazio della pellicola cinematografica, che assorbe sulla propria materia e registra l’oggetto in un nuovo contesto.

RM: Un’operazione forse più fotografica che cinematografica...
GM: Assolutamente, infatti quando si cimenta col cinema, Duchamp ne sfrutta le potenzialità astratte noncurante della referenzialità consentita dalla pellicola ed anzi soverchiandola. Si sta così riappropiando di tutte le possibilità espressive che la tecnologia del tempo gli mette a disposizione. Ci interessa pensare ai problemi che si sono posti gli artisti e non a quella che è poi un’ovvietà, e cioè che nuovi strumenti implicano nuove possibilità, ma quale sia lo sforzo di riappropriazione degli artisti e appunto la vertigine mediatica in cui sono immersi e in cui si ritrovano a ripensare il proprio ruolo.
Una mostra del genere vuole dunque essere uno stimolo per far capire al pubblico, non necessariamente di settore, le dinamiche dell’arte contemporanea attraverso l’evoluzione che ha avuto nel corso dell’ultimo secolo. Dall’ottimismo e dalla fiducia sperimentale delle Avanguardie Storiche, alla forte crisi dell’oggetto e soprattutto del progetto che c’è oggi. Mentre nelle Avanguardie, dal Futurismo al Costruttivismo, fino alla Pop Art, c’è un forte desiderio di condivisione e ideazione di un progetto e della costruzione di una nuova società utopica, quello che emerge oggi coincide invece con il momento politico planetario e la forte crisi del soggetto, della sua capacità di partecipazione ad una progettualità condivisa.
Tutto questo si manifesta nella mancanza di gruppi di artisti, non a caso non ci sono più i movimenti, non c’è più la possibilità di una reale incidenza nel sociale, ne deriva una frustrazione che porta a tutta una serie di ideazioni di ripensamento della storia dell’arte. C’è una forte concentrazione sul sé sul soggetto che medita e ripropone nuovi modelli e nuove mitologie personali però al tempo stesso c’è una nuova rivalutazione autocoscienziale del sé, nella frustrazione il soggetto si riscopre. E’ una fase che stiamo vivendo da circa un ventennio e che diventa oggi evidente nelle pratiche artistiche più aggiornate.
Per tornare al nostro discorso iniziale, il Museo deve offrire un esempio e non la completezza di un progetto, dev’essere uno stimolo, un’occasione riflessiva, un punto di partenza.

RM: In questi anni la programmazione del MAMbo si è inscritta in un circuito internazionale, attraverso scambi e acquisizioni di mostre itineranti. Puoi parlarci di questa strategia?
GM: Più che di aquisizioni ci siamo occupati di co-produzioni con alcune delle maggiori istituzioni museali internazionali. Il meccanismo della co-produzione è molto interessante perché produce diversi vantaggi. Dividere le spese di realizzazione di un progetto comporta evidenti benefici economici, ma comporta anche un efficace circuitazione delle idee oltre che il rafforzamento della posizione di un istituzione nascente come il MAMbo, che diventa così un interlocutore alla pari di alcuni dei più importanti centri mondiali per la produzione e la divulgazione dell’arte contemporanea. Questo ha un effetto positivo anche su tutti gli altri progetti del MAMbo.

RM: Si può coniugare cultura e ricerca con un audience popolare?
GM: Quando ho curato la Biennale di Shangai, ho notato che tutto il team curatoriale è rimasto impressionato dall’attenzione dei cinesi al fenomeno arte contemporanea che è considerata l’emblema di un life style, un fenomeno di costume che porta ad un consumo del momento espositivo secondo modalità per noi impensabili. La mostra che abbiamo organizzato allo Shangai Art Museum è stata visitata con una media di circa 7500 visitatori paganti al giorno. Il pubblico cercava con grande curiosità il valore e il senso della mostra e se ne infischiava di quello che in occidente è stato teorizzato negli anni 80 come l’elemento essenziale all’arte, cioè il suo essere dipendente dal sistema dell’arte che legittima l’esperienza estetica e il suo valore attraverso le dinamiche di mercato, di visibilità, di conferma critica.
Molto semplicemente in Cina questo Sistema non funziona e si offre una grande possibilità di sperimentazione per un nuovo e vasto pubblico che incontra l’arte per ragioni non influenzate dal mercato che da noi è il riconoscimento pubblico del valore storico dell’arte. La Cina è stata per noi una specie di decostruzione totale dei nostri parametri di lavoro, ho notoato per esempio il livello di profondità al quale ci costringevano i diversi intervistatori, che ci hanno persino invitato a partecipare ai maggiori programmi televisivi nazionali. Mi è così capitato di partecipare al corrispettivo di Porta a Porta in diretta televisiva e ragionare sull’incidenza del mercato nelle strategie culturali e promozionali dei grandi eventi artistici. Pensare che Bruno Vespa possa dedicare a un programma questo livello di specificità sulle dinamiche dell’arte contemporanea per noi è impensabile.
In Italia l’arte contemporanea non ha questo livello di popolarità semplicemente perché non è nella pratica comune, pur essendo interessante, non la si conosce, non è familiare. Il sistema di formazione e informazione non trova profondi motivi per dedicare spazi di informazione, di approfondimento, di divulgazione all’arte contemporanea che non è un valore riconosciuto.

RM: Il Museo cittadino può in qualche modo sopperire a queste lacune formative e informative?
GM: Il Museo deve sempre tener presente, visto il suo ruolo pubblico, lo scopo di rivolgersi non tanto al mondo dell’arte, quanto all’incidenza che l’arte può avere nelle dinamiche sociali. I musei non sono il prodotto esclusivo di coloro che ci lavorano o di chi li finanzia. Anche gli organi di informazione e le scuole sono attori che, a pari titolo, collaborano al valore del museo, oltre che alle pratiche di ricerca del sapere fondamentali per lo sviluppo culturale e la dignità di un paese.


*Una parte di questa intervista è stata pubblicata sul quotidiano "il manifesto" del 20 luglio 2007. La riproponiamo qui per la prima volta in versione integrale.

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