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L’ITALIA PER IMMAGINI di Sergio Giusti

È ancora possibile dire qualcosa dell’Italia contemporanea con la fotografia? Qualcuno ci crede? Qualcuno lo vuole fare ancora? Una lettera aperta.

Image and video hosting by TinyPic pubblicato il 31 luglio 2010

Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini.
(Guy Debord)

Perché fotografarla? L’Italia di oggi, pur facendo pienamente parte della società postindustriale, non ne appare certo come una punta avanzata. Non getta prospettive – benevole o malevole che si voglia – sul futuro o sui futuri come accade con la Cina, peraltro fotografatissima. Eppure mi sembra ancora un laboratorio che lavora a pieno regime. Un laboratorio pieno di cavie, ruolo che l’italiano, perlomeno nella percezione media, sembra ormai incarnare con la medesima rassegnazione dei mansueti animali da esperimento. Non è il caso di partire con tirate moraliste, non mi interessa e non è interessante: niente grida di dolore per la decadenza, nessun o tempora o mores. Vorrei solo chiedere e chiedermi perché è così difficile da raccontare in immagini. Perché, rompendo gli indugi, appare troppo spesso scontata e noiosa, scarsamente fotogenica.
Forse sono partito col piede sbagliato: non solo l’Italia è fotogenica, anzi, la fotogenia è l’unico requisito possibile per l’esistenza di un discorso sull’Italia contemporanea. Intendo dire che solo la presenza in immagine garantisce una collocazione percepita come vera nello scacchiere sociale, ovvero che solo l’evento che nasce già immagine ha cittadinanza in quel residuo di storia ridotta a cronaca, che viviamo da più di vent’anni e che era incubato da molto più tempo.
Se raccontare questo Paese con le immagini deve significare ancora uscire dal discorso precostituito, è chiaro allora che si tratta di un gioco delicato, sempre più spesso destinato a fallire. È un tentativo di curare un avvelenamento utilizzando il veleno stesso: non so quanto possiamo – ed efficacemente – stare nella parte di Mitridate. Non dico niente di nuovo. Debord aveva già visto tutto più di quarant’anni fa. L’Italia è un compiuto esempio di società dello spettacolo ed è in buona compagnia, per carità, ma nel suo genere è un piccolo gioiello. Non si tratta infatti di una dematerializzazione in immagine, non una mera sopravvalutazione dell’apparire, ma di una vera e propria sostanziazione: “Lo spettacolo non può essere compreso come un abuso del mondo visivo, prodotto dalle tecniche di diffusione massiva delle immagini. Esso è invece una Weltanschauung divenuta effettiva, tradotta materialmente. È una visione del mondo che si è oggettivata.”(1)
L’immagine non è più apparenza quindi, ma l’unica vera sostanza, perché essa regola i rapporti sociali. Nell’economia come nella politica, fino ai rapporti interpersonali oggi sempre più mediati. E citare l’esplosione dei social networks è tanto a proposito da sembrare banale.
Ma forse bisogna precisare: che cosa intendo per raccontare l’Italia in fotografia? Certo, in prima battuta significa mostrarla, farla vedere. Ma questa mostrazione non può in nessun modo fermarsi alle immagini. Quelle prodotte dalla società – gli eventi spettacolari – sono infinitamente più potenti, già forgiate nella sensibilità comune. Il primo piano sconvolto di Massimo Tartaglia dopo aver colpito Silvio Berlusconi con un souvenir del duomo di Milano era già lì per essere immagine e instaurare una propria collocazione nell’immaginario: posso farne un eroe dell’ironia della sorte allo stesso modo di un pazzo pericoloso, che attenta alla vita del premier. In ogni caso aderisco a una sua posizione sociale precostituita. Le caselle, a parte il risvolto da operetta, sono equivalenti. La sua potenza in immagine rimane intatta e non è un paradosso dire che quell’immagine già esisteva, aspettava solo un Tartaglia che la incarnasse. Le cavie potranno poi, nell’analisi, decidere se andare a destra o a sinistra nei percorsi-discorsi sociali che il laboratorio ha preparato per loro.
Per questo è una sorta di consapevolezza innata quella che ha spinto Berlusconi a innalzarsi sulla macchina per offrire meglio alla produzione di immagini il proprio volto insanguinato. Non si può parlare, come alcuni hanno fatto, di qualcosa di preparato. Non è necessario. Il gesto istintivo del premier parla di una preordinazione: è lo spettacolo stesso che ha agito Berlusconi in quel momento.
Siamo quindi già oltre queste considerazioni, comunque più che condivisibili, di Debord: “Sul piano delle tecniche, quando l’immagine costruita e scelta da qualcun altro è diventata il rapporto principale dell’individuo col mondo, che egli prima guardava da sé da ogni luogo in cui poteva andare, evidentemente non si ignora che l’immagine reggerà tutto; perché all’interno di una stessa immagine si può giustapporre senza contraddizioni qualunque cosa. Il flusso delle immagini travolge tutto, e analogamente è qualcun altro a dirigere a suo piacimento questa sintesi semplificata del mondo sensibile.” (2)
Il punto non è più – o meglio non solo – il fatto che le immagini sono al servizio del racconto dirigista che si vuole propinare, ma si arriva ormai a una totale compenetrazione, in cui solo ciò che è preparato per essere spettacolo può materialmente esistere, essere socialmente accettato, e quindi far parte del discorso condiviso. Ma anche questo Debord l’aveva previsto.
C’è di più: lo spettacolo e il suo medium privilegiato, l’immagine, in-formano ormai le regole della società, ne sono la sostanza, il tessuto connettivo. Si potrebbe dire che impariamo a gestire l’intersoggettività (personale, politica, economica) secondo il solco da essi pretracciato. Per essere volgari e paradossali è come se si fosse costretti a imparare il gioco della seduzione amorosa dagli Uomini e donne di Maria De Filippi o l’arte di ottenere ragione dall’Anno zero di Michele Santoro. È utile dire che questa intersoggettività è del tutto fasulla: prova ne è che mai la socialità in Italia è stata tanto atomizzata, priva di una vera volontà di aggregazione e di una fiducia nelle possibilità del gruppo, sia nel senso di un mutuo aiuto nel perseguimento di uno scopo o di un ideale, sia nella convinzione che il fare fronte comune possa avere una qualche maggiore efficacia. In fondo è un’altra faccia del progetto sotteso alla società dello spettacolo: “Chi non fa che guardare per sapere il seguito, non agirà mai: proprio così deve essere lo spettatore.” (3)
Qui mi sembra di arrivare a un punto: indagare seriamente l’Italia odierna significa andare oltre questo enorme schermo oggettivato che ne rappresenta la società. Fare questo significa trovare delle falle nelle quali incunearsi per cominciare a decostruire meccanismi e in seguito ricostruire o meglio far emergere una intersoggettività con una qualche carica di autenticità.
Scrive Nicolas Bourriaud nel suo Estetica relazionale: “Le famose ‘autostrade della comunicazione’, con i loro pedaggi e le loro aree di sosta, minacciano di imporsi come gli unici tragitti possibili da un punto all’altro del mondo umano. […] Di fronte ai media elettronici, ai parchi tematici, agli spazi conviviali, alla proliferazione dei formati compatibili della partecipazione sociale, ci ritroviamo poveri e indifesi, come il topo da laboratorio condannato a un percorso immutabile nella sua gabbia disseminata di formaggio. Il soggetto ideale della società delle comparse è così ridotto alla condizione di consumatore di tempo e spazio.” (4)
Si tratta allora di uscire da questa socialità preconfezionata e compito dell’arte, secondo Bourriaud, è quello di creare seppur piccole occasioni di vero interscambio fra soggetti consapevoli. In questo senso deve assolutamente farsi promotrice di operazioni piuttosto che di contemplazioni. Una fotografia contemplativa, constatativa o peggio autoreferenziale non è minimamente in grado di partecipare a questo compito, poiché rimarrebbe perfettamente integrata nello schermo, sarebbe solo, per rimanere nella metafora, uno dei tanti pezzetti di formaggio.
Azzardo un’ipotesi: se si vuole che qualcosa ci racconti dell’Italia contemporanea, l’immagine fotografica deve diventare una fotografia relazionale, deve cioè scatenare occasioni di scambio sociale e interpersonale che, mentre si rivelano con un certo grado di autenticità, nello stesso tempo disvelano l’artificialità dei “formati compatibili della partecipazione sociale”. La fotografia, col suo carico di memoria, con la sua natura anche performativa, nel suo essere insomma, per usare la famosa espressione di Philippe Dubois, un’immagine-atto, un’immagine che scatena comportamenti, possiede le potenzialità per poter partecipare a un’arte operazionale del tipo auspicato da Bourriaud. Non quindi una fotografia che dia un’immagine dell’Italia, anche onesta, anche di denuncia, ma una fotografia che provochi un’uscita dall’immagine per tornare a mostrare e interagire col tessuto sociale, per quanto martoriato, per quanto svilito.
Se si tornasse oggi a fare un viaggio in Italia non ci si potrebbe accontentare di presentare un’Italia non ancora mostrata, bisognerebbe forse fare in modo che anche il pubblico compia quel viaggio insieme a noi, divenendo parte attiva, producendo punti di vista, dandoci strumenti, materiali, racconti. Qualche fotografia, anche.
Qualcuno ci crede? Qualcuno lo vuole fare ancora?

NOTE
(1) Guy Debord, La società dello spettacolo, Baldini e Castoldi, Milano, 2001, p. 54
(2) Ivi, pp. 206-207
(3) Ivi, p. 203
(4) Nicolas Bourriaud, Estetica relazionale, Postmedia Books, Milano, 2010, p. 8

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