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IL CINEMA DEL SILENZIO a cura di Angelo Desole

Il 6 maggio saranno assegnati i David di Donatello e Michelangelo Frammartino è candidato come miglior regista per il lungometraggio Le quattro volte. Ne parliamo con il giovane regista che partito dalla videoarte è approdato da qualche anno al cinema “tradizionale”.

pubblicato il 28 aprile 2011


Con solo due film nell’arco di quasi un decennio, Michelangelo Frammartino è emerso come uno dei registi più interessanti del panorama europeo contemporaneo.
Il dono (2003) e Le quattro volte (2010) propongono un’idea coraggiosa di cinema, assai distante dai canoni del cinema italiano, perfino di quello più colto, e molto più vicina, per linguaggio e approccio, agli stilemi del cinema di ricerca dell’est Europa. Nei suoi due lungometraggi si intravedono echi di Béla Tarr e Sharunas Bartas, evocati attraverso la ieratica lentezza di lunghi piani sequenza e soprattutto attraverso una fiducia nel valore dell’immagine che si oppone alla parola. Il tratto che appare subito evidente nei suoi film è infatti l’assenza di musiche e di dialoghi a favore di un tappeto sonoro molto complesso costituito da una polifonia di rumori ambientali. Persino le rare parole che i personaggi pronunciano sono spesso inintelligibili e finiscono per diventare, esse stesse, parte del suono dell’ambiente. Film di grande intimismo, storie minimali appena accennate nelle quali il contesto prevale sulle persone.
Il dono, girato nell’arco di pochi mesi con un budget di soli 5000 €, racconta di una ragazza vittima di abusi salvata grazie all’intervento di un vecchio (Francesco Frammartino, oggi scomparso, all’epoca 93enne nonno del regista). Ne Le quattro volte, realizzato in oltre cinque anni a causa di problemi principalmente finanziari, la storia è ancora più asciutta e si divide in quattro episodi che raccontano la morte di un vecchio pastore, la nascita di un capretta in un ovile, l’abbattimento di un albero per la festa del paese e la costruzione della carbonaia da parte degli ultimi rimasti a fare questo antico mestiere. Si vede bene che il racconto della semplice trama non riesce a rendere conto della complessità, profondità e bellezza di questo cinema. Un cinema che ha come principale veicolo linguistico il rigore della forma e il senso della durata.
Girati entrambi nel piccolo borgo di Caulonia, paese della Calabria di cui era originaria la famiglia del regista, questi due film propongono allo spettatore un approccio visivo che li rende partecipi del racconto, attraverso il rifiuto di chiare spiegazioni ma lasciando aperte le porte a diverse possibili interpretazioni e, soprattutto, richiedendo una riflessione sul valore dell’immagine, dell’esperienza cinematografica e, in ultimo, a riassumere tutto ciò in una riflessione sul valore umano della solitudine.
Nell’intervista che ha voluto gentilmente concederci Frammartino racconta la sua formazione, le sue idee sul cinema, i prossimi progetti e naturalmente ci parla di Le quattro volte, il suo ultimo lavoro che, dopo gli applausi di Cannes e Berlino, ha ottenuto tre nominations ai prossimi David di Donatello per la miglior regia, miglior produttore, e miglior fonico di presa diretta.

AD: Come ti sei avvicinato al cinema?
MF:
Tutto nasce da una grande passione per l’immagine. Sin da piccolo mi distinguevo nel disegno, poi avevo una grande passione per l’immagine televisiva. I miei genitori non mi portavano molto al cinema, che consideravano un lusso inutile, per cui mi sono formato visivamente sulla TV. Ho quindi iniziato, già da giovane, a maturare l’idea di fare qualcosa con il Super8. Verso il 1992-’93, nei primi anni universitari, ho finalmente iniziato a girare le mie prime cose, che sono poi diventate delle videoinstallazioni. Consideravo allora il video come un linguaggio diverso dalla pellicola, che ci fosse un conflitto tra il video come strumento per le installazioni di arte visiva e il cinema narrativo tradizionale.

AD: Hai dei modelli di riferimento?
MF:
Ci sono autori che considero didattici e altri che amo visceralmente. Nei miei corsi (Frammartino tiene un corso di Istituzioni di Regia all’Università di Bergamo, n.d.r.) mostro spesso autori come Tarkovskij, perché lo considero didatticamente importante. Però, sebbene riconosco sia un gigante, non lo amo particolarmente, perlomeno non visceralmente come altri autori. Ad esempio Sharunas Bartas, il suo cinema e la sua concezione della durata mi hanno profondamente influenzato. Oppure Tsai Ming Liang in un film come Vive l’amour. Amo molto anche Kiarostami o un autore come Béla Tarr e la sua straordinaria trilogia Perdizione, Satantango, Le armonie di Werckmeister. E poi ovviamente i mostri sacri come Dreyer, Dovzenko, Rossellini e altri.

AD: Hai fatto studi di architettura, in che modo questo tipo di formazione ha influito sulla tua concezione di cinema?
MF:
Ho fatto anche la scuola di cinema, ma non mi ha influenzato così profondamente come gli studi che ho fatto al Politecnico di Milano. La facoltà di architettura è stata per me fondamentale perché mi ha insegnato l’etica del progetto, l’idea di costruire qualcosa pensando a chi la userà, chi ci vivrà e chi verrà dopo. E’ una cosa questa che ho capito solo in seguito, ma che ha molto a vedere col cinema, con la sua idea temporale. È strano perché parlando d’architettura tutti pensano subito allo spazio, ma è soprattutto nella dimensione temporale che l’architettura invece vive. Non sorprende che registi come Antonioni o Wenders siano architetti mancati. Naturalmente anche lo spazio è importante, quando ho iniziato a realizzare videoinstallazioni per me voleva dire prima di tutto costruire uno spazio architettonico dentro al quale l’immagine potesse vivere.



AD: Sei nato e cresciuto a Milano da una famiglia calabrese. Aver scelto di ambientare i tuoi film in Calabria ha avuto un significato particolare?
MF:
È stata una cosa istintiva, naturale e in una certa misura anche sorprendente. La Calabria è un luogo importante della mia vita, ho trascorso là tutte le mie estati fino ai 20 anni. Era un luogo meraviglioso, mi affascinava al punto che, durante l’inverno, mi capitava spesso di sognarla. Quando ho iniziato il mio periodo formativo all’università, che ricordo come anni di delirio, ho quasi finito per dimenticarmi della Calabria e non ci sono più ritornato. Poi nel 2002 mi sono trovato in un periodo difficile (un progetto sperimentale a cui avevo lavorato molto era naufragato per ragioni burocratiche), allora, quasi per reazione, ho deciso di fare un cinema “tradizionale” [Il dono, n.d.r.] e ho deciso di farlo in Calabria. Là non esistono problemi burocratici, metti la macchina da presa dove vuoi e anzi, c’è qualcuno che ti porta la sedia. Ho così riscoperto quei luoghi e il fascino che su di me avevano sempre esercitato.

AD: Il dono è stato prodotto con solo 5000 euro. Le quattro volte segna un percettibile miglioramento tecnico e produttivo. Come riesci a districarti nelle logiche produttive del cinema italiano facendo film così poco commerciali?
MF:
Il dono in realtà è costato 6500 euro. L’idea era di spenderne 5000 ma poi ho sforato. Per poter fare quel film avevo fatto accordi con i ristoratori, con gli albergatori, ecc… Ho poi trattato con la Blue Gold di Luigi Zuccotti. Loro lavorano soprattutto per la pubblicità e quindi hanno prezzi da capogiro, ma Zuccotti è un personaggio incredibile, è uno che quando vede un giovane filmaker non resiste e riesce a dimezzare e, alla fine, quasi azzerare i prezzi. Sono riuscito a fare il film in questo modo, ma in ogni caso alla fine mancavano i soldi per stampare il materiale, c’era solo un montato in Beta. A quel punto è intervenuta Rai Cinema che ha acquistato il film permettendo così di stamparlo. Il dono nasce da un ideale autarchico, che si poneva contro il cinema italiano che all’epoca ritenevo orrendo e fatto solo da persone “ammanicate”.
Con Le quattro volte le cose sono cambiate. Ero partito da un’idea di 250-300.000 euro, da raccogliersi attraverso il coinvolgimento di enti diversi come università e festival. C’era anche la possibilità di ricorrere all’articolo 8, cioè i fondi del Ministero per la Cultura, ma non volevo farlo, ritenevo fosse una forma di assistenzialismo. So che questo è oggi un discorso pericoloso, perché la cultura in Italia vive un periodo di profonda crisi e andrebbe concretamente aiutata, ma all’epoca la vedevo così. Alla fine ho comunque accettato il fondo ministeriale che ha coperto circa un terzo del budget. E’ stata una scelta sofferta ma necessaria perché il finanziamento, per poter essere erogato, prevedeva la clausola della co-produzione internazionale. E’ stata poi una vera soddisfazione constatare quanti finanziatori europei hanno partecipato, e quindi creduto, alla realizzazione del film.

AD: Da dove viene la scelta di rinunciare ai dialoghi e alle musiche?
MF:
È una costante del mio lavoro, preferisco un primo piano silente a un lungo monologo. Penso al cinema di Bartas, dove dietro al silenzio dei personaggi si ha sempre l’idea di un ininterrotto lavorio interiore. Anche la musica, con la sua potenza narrativa, può ingannare guidando lo spettatore verso alcune emozioni piuttosto che altre. Preferisco invece fare un cinema minimalista meno perentorio nel suggerire emozioni. Credo che l’immagine sia come un velo, nasconde più che mostrare. E anche questa è in fondo un’idea presa dall’architettura: il concetto di interno ed esterno. Mostrare un volto per nascondere cosa avviene dentro.

AD: All’assenza di dialoghi fa però da contraltare una complessa partitura di suoni ambientali...
MF:
Sono molto contento del suono de Le quattro volte. Dopo la proiezione a Cannes non ho più rivisto il film, quando vado in giro per presentazioni esco dalla sala e mi capita allora di ascoltarlo. Paolo Benvenuti e Simone Olivero, i due giovani fonici, sono stati anche candidati al David di Donatello, cosa rara per un film così piccolo, ma hanno lavorato davvero duramente. Quando la sera, finite le riprese, andavamo tutti a dormire loro continuavano a registrare suoni di ogni tipo. Questo perché avevo bisogno di un suono complesso, stratificato come il film. Il film è infatti a strati, c’è il carbone, dentro il carbone l’albero, dentro l’albero l’uomo, ecc… Volevo dei suoni che si rincorressero, le campane della festa dovevano essere i campanacci delle capre, il battito del carbonaio l’inizio degli episodi, e così via. Per arrivare a questo risultato durante le riprese sono stati usati microfoni dislocati in punti differenti su tutta la scena. Alla fine delle riprese per il missaggio finale avevo una notevole quantità di suoni su cui lavorare.

AD: A proposito dei lunghi piani sequenza dei tuoi film hai detto di pensare alle inquadrature come a dei personaggi.
MF:
Amo molto il lavoro che fanno artisti di ricerca come Studio Azzurro. Nelle loro opere si costruisce sempre uno spazio all’interno del quale l’immagine è una presenza forte. Fatte le dovute distanze tra la videoarte e il cinema, penso anche io che l’immagine sia una “cosa”, una presenza, un personaggio. Raramente uso una sola inquadratura, nel corso del film mi piace ritornare sulle immagini e vederne i cambiamenti, la luce diversa, le foglie ingiallite, proprio come per un personaggio.



AD: Tra Il dono e Le quattro volte c’è una netta differenza nella costruzione dello spazio. Nel primo i medesimi luoghi vengono inquadrati da diverse angolazioni, contribuendo a creare uno spazio narrativo. Nel secondo invece i medesimi luoghi sono ripresi più volte con le stesse inquadrature, creando uno spazio più familiare ma meno discorsivo. È una scelta precisa?
MF:
Se penso, ne Le quattro volte, alla scena con la vecchia che prepara la polvere vedo che c’è una certa articolazione del racconto in più inquadrature. Nell’episodio del vecchio, il primo, il linguaggio non è così diverso da Il dono. Questa cosa va poi scemando negli altri episodi fino ad arrivare all’inquadratura dei sassi nell’ultimo episodio. Direi che Le quattro volte segna il passaggio da un linguaggio a un altro.

AD: Il cambio di stile si riversa anche nella struttura temporale, che ne Le quattro volte è meno diegetica. Stai andando verso un cinema più “astratto”, meno documentaristico, meno narrativo?
MF:
Bisognerebbe capire cosa si intende per narrazione, è una questione attraverso la quale ci si gioca tanto. Non saprei dirti dove sto andando. Sono partito dalle video installazioni per arrivare al cinema che è un mezzo più narrativo, legato a una storia, ma nel quale ero interessato più agli oggetti che alle persone. E questo interesse è poi esploso con Le quattro volte. Sento di volermi dirigere verso un cinema più estremo e asciutto. Sento l’esigenza di una maggiore severità.

AD: Hai già in mente un nuovo progetto?
MF:
Durante una pausa di lavorazione de Le quattro volte ho iniziato una graphic novel, a partire da quella sto ora lavorando a un progetto di animazione, ma ho ancora dei dubbi e non so se verrà mai alla luce. Ho poi un progetto più serio che per ora ho solo abbozzato. Ne ho parlato qualche settimana fa con i produttori ma ancora ci sto pensando su, è davvero troppo presto per parlarne.
Ricordo che anni fa durante una presentazione de Il dono, credo fosse a Belgrado, un ragazzo mi chiese se ne avrei fatto il seguito – che sarebbe stato ovviamente la storia della ragazza dato che il vecchio era morto. Sul momento gli risposi di no e invece poi ho fatto davvero il seguito. Ma era il seguito dalla parte del vecchio, ormai morto, visto nel ciclo vitale che prosegue. È sempre difficile sapere quale sarà il film che faremo.

FOTO 1 > Michelangelo Frammartino sul set de Le quattro volte. © Vivo Film
FOTO 2 e 3 > Screenshot da Le Quattro volte. © Vivo Film

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