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NUCLEAR CONTROVERSIES a cura di Rossella Biscotti

Questa intervista nasce da un mio progetto, Il sole splende a Kiev, incentrato sull’informazione prodotta da documentaristi e giornalisti dopo l’incidente del 1986 alla centrale nucleare di Chernobyl. In questa ricerca ho avuto modo di conoscere il lavoro di vari registi e metterne in discussione il metodo e l’estetica in rapporto con la realtà che rappresentavano. Wladimir Tchertkoff (Serbia, 1935) è tra questi sicuramente la figura più interessante.
Giornalista documentarista, ha collaborato per più di 30 anni prima con la RAI poi con la TSI di Lugano. Ha realizzato più di 60 documentari. La spinta dell'autunno e Il ministro e gli operai del 69 hanno creato un vero caso politico tanto da spingere la RAI a distruggere tutto il materiale girato. Nel 1974, Morte sul lavoro ha ricevuto il primo premio al Festival dei cortometraggi di Mosca. Tra i documentari girati nei territori di Cernobyl: Nous de Chernobyl (1991), Le piège atomique (1999), Youri et Galina Bandajesky (2000), Le Sacrifice (2003), Controverses Nucléaires (2004). Le Sacrifice, girato nei territori di Chernobyl, nel 2004 ha vinto il primo premio del “Festival du film scientifique” di Oullins, Francia, e il Prix documentaire "Festival international du film de l'environnement", Parigi.



RB: Partiamo dalla storia. Chernobyl è stato il primo incidente nucleare, nel territorio dell’Unione Sovietica. Inevitabilmente ha interessato tutta l’Europa: ha messo in discussione sia i confini tra gli stati, sia i criteri e i sistemi di gestione dell’informazione. In questa particolare sciagura i giornalisti hanno avuto la responsabilità di dare indicazioni precise alla popolazione, su che cosa stava accadendo e sul come comportarsi. I tuoi documentari, come nel caso di Le sacrifice, indagano a partire dalla notizia dell’incidente, per poi approfondirne le conseguenze. Cosa ti ha spinto a lavorare su questo tema? Quando e come hai iniziato?
WT: Ho lavorato come documentarista per 30 anni alla televisione svizzera di lingua italiana (tsi). Con l'avvento della perestroika, essendo di madre lingua russa, sono stato inviato dalla tsi nei territori dell'ex unione sovietica, - Armenia, Azerbaigian, Georgia, Russia… - per realizzare documentari sul disfacimento dell'impero sovietico. Tra questi temi c'era Chernobyl. La prima volta sono stato nel 1990. I contatti che ho potuto avere erano facilitati dalla conoscenza della lingua, per cui ho incontrato molte persone, giovani fisici, che avevano informazioni spesso opposte a quelle ufficiali sulle conseguenze della catastrofe nucleare. Ne è nato il documentario Noi di Chernobyl. La seconda volta sono stato nel 1998. È lì che ho conosciuto Vassili Nesterenko, fisico di livello internazionale. Direttore dell'Istituto dell'energia nucleare dell'Accademia delle Scienze della Bielorussia, Nesterenko è entrato in conflitto con il potere sovietico sin dalle prime ore dell'incidente. Quest'uomo credeva nella scienza nucleare e si può dire che il titolo del secondo documentario, "La trappola atomica", sintetizza la rottura del destino e il drammatico percorso di Nesterenko a partire da quel momento.

RB: In Le Sacrifice alterni immagini di repertorio dei liquidatori (gli addetti allo smantellamento del materiale nucleare e alla decontaminazione dei territori), alle interviste realizzate ad alcuni di loro negli anni successivi, nel 1991, 1999 e 2001. Dalle interviste capiamo che questi uomini sono stati “lanciati contro il reattore” senza avere un’informazione adeguata rispetto ai rischi che correvano. L’immagine artefatta dell’eroe, i monumenti e le celebrazioni, sono servite a nascondere i reali problemi che hanno dovuto affrontare...
WT: Infatti, i liquidatori sono giovani reclute - in media avevano 30 anni di età, - arruolate militarmente e sacrificate in massa dal panico e dall'ignoranza delle autorità sovietiche. Senza una adeguata protezione hanno eseguito, oltre ai necessari lavori di spegnimento dell'incendio e di copertura delle rovine della centrale, lavori pericolosissimi e perfettamente inutili: hanno "ripulito" i territori contaminati, cioè i campi, le strade, le case dei villaggi, gli spazi indefiniti delle piogge radioattive... Li hanno mandati all’inferno per poi innalzarli agli altari e per finire abbandonarli. E’ cinismo allo stato puro, è un crimine.

RB: Il documentario Nuclear Controversies denuncia il conflitto d’interessi tra due agenzie delle Nazioni Unite responsabili della ricerca sulle conseguenze. E’ girato durante un convegno nel quale si confrontavano l'Organizzazione Mondiale della Salute (OMS) e l'Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica (IAEA).
WT: Le agenzie delle Nazioni Unite, responsabili della salute e della radioprotezione, non riconoscono la causa radiologica delle nuove patologie. Ufficialmente, la catastrofe di Chernobyl ha causato solo 31 decessi, 2 dei quali per trauma e uno per arresto cardiaco. Questo tradimento, commesso e accettato al livello più alto dalle istituzioni internazionali, è reso possibile grazie a un patto ufficiale di omertà e a un imbroglio pseudo-scientifico.
Il patto: Un accordo, firmato nel 1959 tra l'Organizzazione Mondiale della Salute e l'Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica impedisce all’OMS di agire liberamente nell’ambito nucleare se non ottiene il consenso dell’AIEA. L’AIEA, costituita da fisici e non da medici, ha però come obiettivo principale la promozione delle centrali nucleari nel mondo. Essa impone quindi il suo diktat a l’OMS, il cui obiettivo è invece "di portare tutti i popoli ad un livello di salute il più elevato possibile".

RB: E l’imbroglio scientifico?
WT: L'imbroglio “scientifico” consiste nell'identificare gli effetti dei due disastri atomici maggiori, Hiroshima e Chernobyl. Nell’esplosione della bomba di Hiroshima l’elevata temperatura (che può raggiungere fino a 100 milioni di gradi centigradi) e l’altitudine dell'esplosione (avvenuta a 600 metri dal suolo) hanno formato un “camino di fuoco”, con evacuazione vertiginosa - due volte la velocità del suono - della maggior parte degli elementi radioattivi verso la stratosfera, e la loro dispersione dal "fungo" atomico su tutto il globo terrestre. Sul sito stesso di Hiroshima, (dove gli Americani hanno ricostruito la correlazione tra le dosi di radioattività e gli effetti sulla salute dei sopravvissuti), le ricadute verticali di elementi radioattivi sono state minime. Nel caso di Hiroshima si tratta dunque solo di un'esposizione esterna al potentissimo flash di raggi gamma.
A Chernobyl invece l'esplosione non è stata atomica ma termica. L’incendio, durato 10 giorni, ha riversato sui territori tonnellate di elementi radioattivi, che provocano una contaminazione cronica con dosi deboli incorporate nell’organismo per ingestione e per inalazione di radionuclidi e di particelle calde (raggi alpha, beta, gamma). Siccome per il "dogma Hiroshima", solo l'irradiazione esterna molto forte può causare patologie, gli effetti delle dosi deboli di Chernobyl non meritano nemmeno di essere studiati secondo la scienza ufficiale: infatti, non un centesimo è investito nelle ricerche. Le patologie osservate sono riconducibili eventualmente allo stress e alla "radiofobia".

RB: Studiando il caso Chernobyl e le relative conseguenze sulla popolazione affronti un problema che tocca malattie, malformazioni… Qual è il limite oltre il quale si invade la privacy e il rispetto delle persone che filmi? Quando i problemi privati di un individuo diventano, o è necessario che diventino, pubblici?
WT: Il rispetto per le persone è il fondamento del mio modo di lavorare. Nell'accostarmi ai problemi, cerco sempre di dar voce a chi si trova in una situazione subalterna, il cui destino è intrecciato con quella situazione. Lo scopo dell’informazione è di rivelare ciò che non si sa, o ciò che è tenuto nascosto, o coperto, che gode di una minore libertà d’espressione. Quindi anche qui ridimensiono il "potere della telecamera": la metto al servizio della persona e non la persona al servizio di una tesi televisiva, o quella che sia. La tecnica del cinema verità mi ha dato una delle chiavi possibili per fare i documentari e per interrogare gli esseri umani: abolire la presunzione del nostro intervento sulle cose e sulle persone, e cercare di restituirne l’autenticità. Mi interessa la persona umana così come è. Non deve essere subordinata ad un mio progetto.
Io poi non intervengo sulle situazioni o sulle persone, non faccio ripetere, perché la testimonianza qualitativamente (umanamente, emotivamente) valida non è ripetibile. Cerco di entrare nella realtà in punta di piedi, non modificarla, ma capirne la dinamica e cogliere nello spazio i punti strategici dove piazzarmi. Potrei dire che il documentario è una costruzione tanto più artisticamente curata, tanto più intellettualmente e scientificamente verificabile, quanto più è rispettosa della verità delle cose e delle persone, che non si subordinano all'intervento e alla presunzione giornalistica. Io non invado la privacy, offro alle persone l'occasione di testimoniare, rifiuto il compiacimento delle malformazioni. Non ne troverai nei miei documentari.

RB: Nella prima domanda mi hai parlato del Dott. Nesterenko. E’ una figura che mette in relazione la sfera del pubblico, (sanità e organizzazioni ufficiali), e quella del privato, (la gente che ha bisogno di cure ed informazione). Nei tuoi documentari lo si vede attraversare i territori contaminati, anche lui è una specie di eroe…
WT: Dal 1977 al 1987, Nesterenko è stato direttore dell'Istituto dell'Energia nucleare dell'Accademia delle Scienze della Bielorussia. Nell'Unione Sovietica aveva accesso alle città atomiche segrete per ragioni militari. E’ l’inventore e costruttore di un mini reattore trasportabile, in grado di avviare il lancio di razzi intercontinentali per contrastare la mobilità dei sottomarini americani. Ha sorvolato la centrale in fiamme durante le prime ore dopo l'esplosione del reattore; dall'elicottero ha studiato la possibilità, poi messa in atto, di introdurre azoto liquido nel cuore del reattore per spegnerne l'incendio. È incredibile il fatto che sia sopravvissuto: dei quattro passeggeri solo lui è rimasto in vita, gli altri sono morti poco dopo a causa della forte irradiazione. Aveva subito informato le autorità dell'URSS della necessità di evacuare gli abitanti dei villaggi nei 100 chilometri attorno alla centrale e di distribuire pastiglie di iodio. Il suo appello non fu ascoltato. È stato destituito da direttore dell'Istituto di Energia Nucleare e subito le pressioni del KGB.
Quando ha misurato i bimbi che arrivavano dai villaggi contaminati, il contatore si bloccava tanto era alta la radioattività. Ha avuto uno shock. Questa esperienza ha capovolto la sua filosofia di vita. Ha deciso di dedicare interamente le sue conoscenze all'aiuto esclusivo delle popolazioni operando nei villaggi più contaminati del sud della Bielorussia con 7 laboratori mobili, offerti dall'Irlanda, attrezzati di spettrometri. Le misurazioni che ha effettuato dal 1991 sui prodotti alimentari, rivelano che più del 20% del latte e il 25% dei prodotti alimentari locali superano le norme autorizzate per il Cesio 137.



RB: Che importanza ha l’immagine, la luce, il montaggio, in un documentario su Chernobyl?
WT: Le riprese e le scelte nel montaggio sono anche scelte estetiche che devono portare però a una riflessione. Le scelte di luce e di accostamento di immagini portano a un'emozione, portano un messaggio, un significato. Il montaggio è l'ultima metamorfosi dell'intuizione iniziale, che raccoglie, valorizza e trasforma le fasi precedenti (idea, sopralluoghi, riprese).
Visionando il materiale girato emergono delle scoperte e degli orizzonti nuovi, delle corrispondenze intime tra le cose. La scaletta vera del documentario si definisce solo all'inizio del montaggio, non prima, e va modificandosi durante. Certamente la presenza e la responsabilità del regista è essenziale: è lui che vuole il documentario sin dall'inizio. Ma l'impronta e l’apporto del montatore sono fondamentali per quello che il documentario diventerà e trasmetterà, non solo nella sua forma audiovisiva, ma anche nella sua capacità di comunicazione semantica, e anche poetica. Il bello è il miglior messaggero.

RB: Hai realizzato un video con Yuri Bandazhevsky e sua moglie Galina. Rispetto alle altre opere questa intervista è molto diretta, anche nell’estetica. E’ da considerarsi come un video d’emergenza?
WT: Ho conosciuto personalmente Bandajevsky nel mese di aprile del 2000, quando era in attesa del processo. È in questa occasione che ho realizzato questa intervista con lui e sua moglie Galina, pediatra. Mi hanno raccontato l'incredibile storia delle loro scoperte medico-scientifiche e del prezzo che hanno dovuto pagare per questo. Bandajevsky deve essere riconosciuto e celebrato: le sue scoperte scientifiche devono essere pubblicate, conosciute, discusse, verificate. E’ il solo a aver cominciato a descrivere l'azione distruttrice delle dosi deboli di Cesio radioattivo incorporato nell'organismo umano, su tutti gli organi vitali. Perdere questa occasione di conoscenza, sarebbe una perdita irreparabile per l'umanità. Nessun altro oltre a lui è andato così lontano, così in profondità nella ricerca.
Dopo aver divulgato le sue ricerche e denunciato la cattiva gestione dei 17 miliardi di rubli destinati nel 1998 alle conseguenze sanitarie della catastrofe, Bandajevsky è stato accusato di concussione. Il 18 giugno 2001 è stato condannato, dopo un processo senza prove, ad 8 anni di campo a regime duro da un tribunale militare. Questa è un’emergenza.

RB: Credi che i tuoi documentari possano realmente intervenire in questa realtà? Se si,in che modo?
WT: I documentari nascono come delle piante. All’apice della punta avviene il processo della crescita, c’è la vita. La storia umana è una ricerca persistente ed è in quell'intervallo creativo, teso e esitante tra il passato e il divenire che mi confronto con la materia del mio mestiere. Mi affascina il continuo cercare, la capacità umana di affrontare e superare le contraddizioni della propria condizione.
Sostanzialmente cerco le situazioni umane che tentano di dare risposte creative ai problemi reali. La telecamera e il montaggio sono strumenti di conoscenza del reale e, allo stesso tempo, strumenti di creazione, in quanto rimandano ai protagonisti della vita vissuta. Questo può essere un ideale, che ciascun documentarista avvicinerà più o meno secondo la sua capacità di dar voce e volti, il più possibile, a queste tensioni. Si tratta quindi, volendo, anche di uno strumento di autoeducazione permanente la cui meta si potrebbe configurare nel perfezionamento di una qualità d'attenzione e testimonianza: nel trasformare in coscienza la più vasta e profonda esperienza possibile. In genere cerco di trovarmi all’incrocio di situazioni, di contrasti, di contrapposizioni (esterni nel mondo, interni nella persona) in modo da viverne la dialettica e il confronto.

RB: Oltre ad essere regista, sei il segretario dell’Associazione “Enfants de Tchernobyl Belarus”. C’è una separazione tra il lavoro di documentarista e la tua attività sociale e politica?
WT: Non c'è separazione.


* Articolo tratto dalla rivista Around Photography n. 5, pubblicata nell’aprile 2005.

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