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ARTICOLI > NUMERO 14 > NOVEMBRE/APRILE 2008/2009

DATABASE LOGIC di Luca Panaro

Tutto ci porta ormai a considerare l’invenzione della fotografia come l’avvento di un nuovo modo di strutturare la nostra esperienza visiva quotidiana. Dal giorno dell’invenzione della fotografia il mondo è divenuto una raccolta infinita d’immagini, assimilabile a un database.

photo L’attuale cultura può essere letta come il frutto di un radicale cambiamento estetico, che parte dall’Ottocento con l’invenzione della fotografia e del cinema per giungere fino all’odierna società dell’immagine informatizzata, ordinata in motori di ricerca e comunità virtuali. Seguendo la teoria di Ervin Panofsky,1 che vide nella prospettiva lineare una “forma simbolica” dell’era moderna, Lev Manovich ha recentemente definito il database come la nuova forma simbolica dell’epoca contemporanea.2 Non si fa riferimento solo alla cultura artistica degli ultimi anni, ma all’estetica di almeno tutto il Novecento.
Fotografia e cinema hanno dimostrato di essere fin dalle origini strumenti di archiviazione, tasselli di database, anche quando utilizzati senza pretese artistiche. Fra gli autori che invece hanno fatto uso della fotografia con ambizioni alte, impegnati nell’esplorazione delle potenzialità del linguaggio, se ne possono ricordare alcuni in sintonia con la logica del database, veri e propri artefici di archivi fotografici a tema. Da Pencil of Nature (1844) di William Henry Fox Talbot, all’enorme catalogo di soggetto botanico realizzato da Karl Blossfeldt (Urformen der Kunst, 1898-1932). Dalla monumentale raccolta d’immagini della società tedesca effettuata da August Sander (Face of Our Time, 1929), ai Twentysix Gasoline Stations (1963) di Ed Ruscha. A seguire, l’altrettanto ossessiva catalogazione di Bernd e Hilla Becher e quella dei loro allievi Andreas Gursky, Candida Höfer, Axel Hütte, Thomas Ruff e Thomas Struth. Fotografie che assumono la loro forza in virtù della quantità, sono anche quelle accumulate da Armin Linke e messe a disposizione degli utenti del suo sito internet; un grande database informatico dal quale selezionare 16 tra più di 5000 fotografie, per illustrare un libro tutto personalizzato (ArminLinke.com - A book on demand, 2003).
Gli autori fin qui citati sono dei costruttori di database, si servono dell’apparecchiatura fotografica per creare un archivio d’immagini e per “navigarci” all’interno. Ora la nostra attenzione si sposta però su quegli artisti che utilizzano, anziché produrre, un database, attingendo a materiale visivo già fatto. Pablo Picasso anticipò questa modalità operativa servendosi del collage, prendendo dalla realtà dei ritagli di giornale, spartiti musicali, carta da parati e quant’altro potesse incollare sulla tela. Un discorso analogo potrebbe essere fatto anche con riferimento al fotomontaggio dadaista di Hannah Höch o di altri autori attivi in questa direzione.
Che l’arte del Novecento abbia adottato concettualmente la logica del database lo testimonia anche la più grande intuizione artistica prodotta da questo secolo: il ready-made. Scegliendo prodotti industriali di uso comune, Marcel Duchamp si limita ad indicare come opera d’arte una serie di oggetti già fatti: una ruota di bicicletta (Roue de bicyclette, 1913), uno scolabottiglie (Egouttoir, 1914), un badile da neve (In Advance of the Broken Arm, 1915), un orinatoio in porcellana (Fontaine, 1917) e tanti altri. L’artista francese può essere visto come una sorta d’internauta ante litteram, alla continua ricerca di oggetti di suo interesse, come oggi si fa abitualmente rovistando fra le informazioni multimediali ricercate su Google o YouTube.
In area tardo surrealista Joseph Cornell ben rappresenta la logica del database per quanto riguarda la filmografia sperimentale. Rimettendo mano ai suoi materiali, nella più classica tradizione del “found footage” (pratica che consiste nel realizzare film riappropriandosi dei materiali trovati, prelevati, spesso girati da un altro cineasta), Cornell rimonta il 16mm East of Borneo (1931) reintitolandolo Rose Hobart (1936).
In seguito, nella seconda metà del Novecento, sarà Andy Warhol a continuare quest’esplorazione all’interno di una vasta quantità d’informazioni preconfezionate. Mentre il database di Duchamp era composto di oggetti, quello di Warhol lo sarà d’immagini. Negli anni Sessanta possiamo già parlare di una società costruita intorno a un grande archivio mediale, che l’artista utilizza a suo piacimento, ingrandendo, moltiplicando e trasformando in opera d’arte capi di stato (Mao), dive di Hollywood (Marilyn Monroe), pericolosi criminali (Thirteen Most Wanted Men), bibite (Coca Cola Bottles), cibo in scatola (Campbell’s Tomato Soup), detersivi (Brillo Boxes), incidenti stradali (Ambulance Disastrer Two Times), opere d’arte (Botticelli’s Venus) e tante altre immagini già esistenti e mitizzate. Quest’operazione di prelievo fotografico dai mass-media è probabilmente la più seguita dalle generazioni successive di artisti. Bruce Conner (scomparso lo scorso luglio), parallelamente ai suoi noti assemblage, realizzava fin dagli anni Cinquanta dei film fatti di spezzoni trovati come A Movie, del 1958. In Report (1963-67), Connor ripete diverse volte alcune sequenze televisive dell’assassinio di Kennedy con differenti colonne sonore. La logica del database la troviamo anche nella serie Atlas (1964) di Gerhard Richter, un enorme ricerca iniziata nei primi anni Sessanta che mette a confronto fotografie di vicende private familiari con immagini della storia pubblica tedesca. Questo progetto, nel corso degli anni, portò ai pannelli in cui Richter raccolse fotografie da Buchenwald e Bergen-Belsen. Tutta l’opera di Christian Boltanski, dagli anni Settanta ad oggi, ruota intorno alla fotografia come strumento di memoria e di accumulo d’immagini provenienti dal passato, spesso quelle utilizzate per i necrologi. Nelle installazioni dell’artista francese, i database composti da ritratti di persone scomparse fanno riflette sulla dimensione temporale, sul trascorrere del tempo e sulla sua percezione. L’indagine di materiale visivo prodotto da altri caratterizza anche il lavoro di Franco Vaccari, fin dalla sua memorabile installazione alla Biennale di Venezia del 1972 (Lascia su queste pareti una traccia fotografica del tuo passaggio). Qualche anno prima aveva inoltre esplorato alcune fotografie dell’Ottocento compiendo una specie di reportage all’interno delle immagini (Modena dentro le mura, 1970). Recentemente, invece, l’artista italiano si è avvalso dell’album di famiglia come banca dati visiva da ri-significare. Ne L’album di Debora (2002) esplora le immagini private di una fotomodella, dall’infanzia agli anni più intensi della sua carriera artistica. In Provvista di ricordi per il tempo dell’Alzheimer (2003), mediante fotografie, frammenti di film, riprese televisive e cortometraggi famigliari, è la vita dello stesso artista ad essere indagata e custodita in poco più di venti minuti.
Continuando su questa linea, negli ultimi decenni del Novecento, si scatena un “impulso archivistico”3 o una “febbre d’archivio”, come l’hanno definita rispettivamente Hal Foster e Okwui Enwezor. La fotografia, il cinema, la televisione del passato vengono presi d’assalto dagli artisti contemporanei, in loro cresce l’esigenza di confrontarsi con un database di esperienze storiche. Il video si presta particolarmente a questo tipo di operazione, spesso mettendo in atto la logica anti-narrativa tipica del cinema d’avanguardia surrealista. Stan Douglas realizza un’installazione mettendo insieme materiale filmico della Edison Company risalente alla fine dell’Ottocento (Ouverture, 1986). Harun Farocki e Andrei Ujica rivisitano la rivoluzione rumena attraverso i filmati televisivi originali girati tra il 21 e il 26 dicembre 1989, compreso l’ultimo discorso di Nicolae Ceau?escu, dove il rapido mutamento d’espressione del suo volto lascia intravvedere l’imminente deposizione (Videograms of a Revolution, 1993). Martin Arnold utilizza materiale riguardante i vecchi film hollywoodiani, Paul Pfeiffer rivolge la sua attenzione verso gli spettacoli commerciali recenti, Douglas Gordon si appropria del celebre Psycho di Hitchcock rallendandolo fino ad un ritmo ipnotico (Psycho 24 ore, 1993), Johan Grimonprez raccoglie filmati sui dirottamenti aerei come pretesto per riflettere sui media (Dial H-I-S-T-O-R-Y, 1997) e Walid Raad documenta la storia contemporanea del Libano con film, videotape e fotografie storiche (The Atlas Group Archive, 1989-2004).
La fotografia, come il video, viene vista attraverso l’innegabile fascino della sua obsolescenza. La posizione favorita degli artisti sembra essere quella di guardare indietro per dare un senso nuovo alle immagini, per “reinventare il medium”, come sostiene Rosalind Krauss.4 Zoe Leonard e Cheryl Dunye, producono in studio un ricco archivio fotografico ricostruendo in modo verosimile l’intera vita di Fae Richards, dal successo come cantante fino alla vecchiaia (The Fae Richards Photo Archive, 1993-96). Tacita Dean, invece, fa riemergere dal passato persone realmente esistite, anche se in qualche modo perdute nel tempo; con sguardo etnografico raccoglie in sette anni di ricerche un centinaio di fotografie di varia epoca, area geografica e soggetto (Floh, 2000). Hans-Peter Feldmann certifica la risposta dei media all’11 settembre 2001 attraverso una collezione di cento copertine di quotidiani internazionali usciti il giorno successivo alla caduta delle Twin Towers (9/12 Front Page, 2001). Questo interesse diffuso per l’immagine trovata è particolarmente evidente anche in Joachim Schmid che nel 1989, in occasione del 150° anniversario della nascita della fotografia, dichiarò: “Nessuna nuova fotografia finché le vecchie non siano state utilizzate!”. Il suo lavoro di non-fotografo consiste infatti nel raccogliere, selezionare, assemblare e infine mostrare fotografie altrui. Con centinaia di ritratti provenienti dallo stesso laboratorio, tutti tagliati in due parti per impedire il loro riutilizzo commerciale, Schmid ottiene immagini combinando due metà provenienti da fotografie differenti (Photogenetic Draft, 1991). “La convivenza nello stesso viso di giovane e anziano, maschile e femminile, parla una lingua esistenziale, racconta storie legate all’identità e al tempo”.5 Anche Sara Rossi si serve spesso della fotografia d’archivio nelle sue opere, oppure dei filmini amatoriali girati in Super 8mm (Otto, 2008). In occasione di una mostra personale, servendosi di una lunga collezione di cartoline postali rappresentanti paesaggi inanimati, l’artista ha composto una verosimile linea dell’orizzonte (Carosello, 2005).
Sono quindi numerosi gli artisti che in qualche opera o in maniera sistematica nella loro ricerca hanno attinto a un database d’immagini accumulato nel tempo. Con appropriazioni al limite della legalità, Sherrie Levine rifotografa le immagini scattate in Alabama da Walker Evans a una famiglia di mezzadri (After Walker Evans, 1980), mentre Michael Mandiberg scannerizza dal catalogo di Levine queste fotografie per caricarle sul web, invitando i visitatori a stampare le immagini e venderle con tanto di certificato d’autenticità e istruzioni d’incorniciatura (AfterSherrieLevine.com, 2001). Il ready-made duchampiano viene portato all’estremo, le immagini sono ormai facilmente prelevabili da un database culturale collettivo per essere semplicemente ri-significate, l’autore perde il ruolo di creatore per diventare un ricercatore di “strutture di significazione” (Douglas Crimp).
Parlando di violazioni del copyright, indicativa è la ricerca di Richard Prince. Uno dei lavori più noti dell’artista americano consiste nel rifotografare le pubblicità della Marlboro Country, ingrandirle, incorniciarle ed esporle nelle gallerie e nei musei (Untitled-Cowboy, 1989). Nel rispetto dei diritti d’autore, ma pur sempre decontestualizzate, sono invece le fotografie di cronaca utilizzate da Oliviero Toscani negli anni Novanta per alcune campagne pubblicitarie della Benetton; prelevate direttamente dai quotidiani, queste immagini toccano tematiche scottanti e d’attualità come l’Aids, la mafia, lo sbarco dei clandestini o l’inquinamento. Nel 1990 Toscani fonda “Colors”, un magazine globale con uscite monografiche di taglio sociale, un vero e proprio database d’immagini “già fatte” provenienti da ogni parte del mondo. Un altro esempio di prelievo, che attinge però questa volta a un archivio già digitalizzato d’immagini, cioè a un database nel senso stretto del termine, è quella compiuta dall’artista tedesco Thomas Ruff, che ha presentato alla Biennale di Venezia del 2004 una serie di paesaggi ottenuti semplicemente scaricando dal web alcuni file compressi, ingranditi e poi mostrati nella bassa definizione che li caratterizza (Jpeg, 2004).
Dalle operazioni artistiche analizzate in questo scritto, emerge un’importante ridefinizione del concetto di autore, sempre più latente, pronto a riattualizzare il passato lavorando sul già fatto. L’artista dell’epoca contemporanea può permettersi di non produrre perché vive “fra le immagini”,6 uno spazio ancora relativamente nuovo ma già strutturato abbastanza per essere racchiuso all’interno di un database.

[1] E.Panofsky, Die perspektive als “simbolische form” [1927], edizione italiana La prospettiva come “forma simbolica”, Milano 1993.
[2] L.Manovich, The Language of New Media [2001], edizione italiana Il linguaggio dei nuovi media, Milano 2002.
[3] H.Foster, An Archival Impulse, “October” n°110, Fall 2004, O.Enwezor, Archive Fever. Uses of the Document in Contemporary Art, New York/Göttingen 2008. 4
[4] R.Krauss, Reinventare il medium. Cinque saggi sull’arte d’oggi, Milano 2005.
[5] S.Menegoi, I am not a photographer, “Mousse Magazine” n°2, settembre-ottobre 2007. 6 R.Bellour, L’Entre-Images [2002], edizione italiana Fra le immagini, Milano 2007.

FOTO 1 > ZOE LEONARD, The Fae Richards Photo Archive, 1993-96, 78 gelatin silver prints and 4 color print, Courtesy Tracy Williams, New York
FOTO 2 > JOACHIM SCHMID, Photogenic Drafts, 1991
FOTO 3 > SHERRIE LEVINE, After Walker Evans: 1-22, 1981, 22 gelatin silver prints, dimensions variable, The Metropolitan Museum of Art, Gift of the artist, 1995, © Walker Evans Archive, The Metropolitan Museum of Art

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