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ARTICOLI > NUMERO 07 > OTTOBRE/DICEMBRE 2005

PALK'S ELECTRONIC SUPER HIGHWAYS di Fabiola Naldi

Nam June Paik e il varo "ufficiale" della video arte.

photo Come abbiamo avuto modo di affermare nell’articolo su Lucio Fontana, già dai primi anni Cinquanta le nuove possibilità tecnologiche affascinano e stimolano un numero crescente di operatori culturali. Ancora si dibatte su chi siano stati i primi a fare “propri” la video immagine: Wolf Vostell, Nam June Paik, Lucio Fontana, le prime trasmissioni televisive o i primi video registratori portatili con telecamera della Sony? Domanda inutile così come le eventuali risposte; molto più importante è, invece, sottolineare come “lo spirito del tempo”, e il progresso in corsa, hanno fatto della generazione degli artisti attivi intorno ai Sessanta, la prima a operare, a confronto o a contrasto, con il mezzo video, sottoscrivendo la nuova attitudine (tuttora vincente ed esplosiva) dell’era artistica tecnologica.
Il primo punto teorico comune è l’osservazione consapevole e critica di una nascente società delle telecomunicazioni pronta a disseminare milioni di informazioni, di consumi e di tendenze non sempre fedeli alla realtà. Per questo l’affiancarsi del video alle nuove attività estetiche è, inizialmente, da leggere come “cattiva coscienza” della televisione (intesa come massima rappresentante della comunicazione di massa). La scena artistica internazionale a cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta si trova “ribaltata” da pratiche extra pittoriche progettate per fare una tabula rasa del passato prossimo e remoto e veicolate come crescente riflessione sul quotidiano (di cui la televisione è parte colpevole e consapevole). La lucida “critica” sull’esterno mediatico, sempre più totalizzante, è fondamentale nelle presentazioni pop inglesi ma, maggiormente, lo diventa per tutte quelle realtà espressive che mirano a dissolvere i confini fra arte e vita come Living Theatre, Happening, Environment Art, Pop Art, Lettrismo, Musica Concreta, Fluxus, Poesia Visiva, Nouveau Réalisme, Performance, Body Art, Land art, Internazionale Situazionista. In modi differenti la tecnologia e la “presa” sulle piccole cose del Reale diventano i forti contenuti delle operazioni realizzate, pronte per essere vissute come ampliamento sinestetico della profonda divaricazione fra la realtà televisiva intesa come “informazione istituzionale” e la testimonianza televisiva vista come libero mezzo di comunicazione.
Già Lucio Fontana intuisce le innumerevoli possibilità espressive della tv in quanto medium per l’arte, ma solo con i Tv Décollage di Wolf Vostell e le televisioni “distorte” di Nam June Paik iniziano a proiettarsi delle nuove possibilità di intervento visivo sul mezzo e sulle reazioni e coazioni dei nuovi spettatori. Ma, mentre Vostell “vede” la televisione come nemico pubblico da scomporre, manomettere e distruggere, Nam June Paik sceglie il fascino indiscreto della trasmissione visiva e del linguaggio tramite una feroce ironia con la quale mettere in discussione l’interna capacità di riproduzione della realtà. Coreano di nascita, Paik studia arte, estetica e musica all’Università di Tokio dove si laurea con una tesi su Arnold Schoenberg, proseguendo poi gli studi sulla musica d’avanguardia a Monaco, a Friburgo e soprattutto a Darmstadt con Nono e Stockhausen. La musica concreta diventa un generatore di nuove possibilità sperimentali in grado di concatenare le opere video a una sinestesia “continuamente arricchita e rinnovata”; nel 1958 l’incontro con la produzione Music Walk di John Cage lo coinvolge al punto di intitolare la sua prima opera, esposta il 13 novembre 1959 alla Galerie 22, Hommage à John Cage. La mostra inusuale richiama l’attenzione di altri precursori sinestetici come Joseph Beuys e George Maciunas che lo accolgono a braccia aperte nella nuova “esperienza” Fluxus. Etude for Piano forte, il 6 ottobre 1960, e One for Violin, nel maggio 1962, sono tra la più importanti performance sonore di Paik all’interno del non movimento, ma l’esperienza indimenticabile, al punto di essere entrata nel mito della storia dell’arte contemporanea come prima esposizione di video arte, è la mostra alla Galleria Parnass a Wuppertal nel marzo 1963, dove Paik presenta Exposition of music-electronic television: Collegati a 13 magnetofoni (o generatori di frequenze) che giocano il ruolo di fonti di informazione costitutive del segnale, i televisori non diffondono nulla di stupefacente; zebrature, interferenze. Tuttavia è la creazione più importante di Paik, la più decisiva, la più radicalmente nuova. Tutto il resto è più o meno già stato visto altrove. Il resto è un residuo. La fine di qualcosa. (Forgier, 1989).
Nam June Paik parte dal mezzo per modificarne la resa e la funzione in nome di un ipertesto innovativo nel quale è la manipolazione e l’alterazione d’immagine a prendere il sopravvento: il contenuto e le funzioni interne diventano “prove di trasmissione” estranee alla rappresentazione standard e ridefinite dall’artista con la costruzione astratta di modulazioni luminose collegate a sonorità elettroniche sperimentali. La scelta di operare sul medium e non sui contenuti chiaramente modifica la percezione finale e libera l’immagine elettronica dall’impegno della riproduzione meccanica del referente reale da cui partono le sequenze visive registrate.
Operare sull’hardware e non sul software significa introdurre una riflessione e un confronto diverso con l’apparato televisivo tanto da generare una positivizzazione dell’apparecchio, una diversa assunzione di responsabilità e di critica della massificazione e dei rituali della televisione. L’invenzione delle immagini trasmesse dai 13 monitor è così importante e sconvolgente da trattenere, per molti anni, lo stesso Paik nelle conseguenti possibilità espressive e nelle svariate elaborazioni di forme autogenerate dalla tv modificata. In Zen for tv, del 1965, l’artista presenta un monitor in posizione verticale che emette al centro un’unica striscia sottile, quasi si trattasse di un segnale captato da chissà quale altro pianeta o di una zona di luce “illuminante” tradotta in energia ipnotica. Per lavorare con le nuove tecnologie dell’arte occorre una grande pazienza. Bisogna studiare molto..Il mio background mi ha aiutato a essere paziente… È una specie di “pazienza” che deriva dallo Zen, il training, e che aiuta a studiare la tecnologia. Il riferimento alla radice orientale e spirituale è ancora oggi un punto fondamentale della produzione artistica di Paik: l’occidente tecnologico e l’oriente meditativo si incontrano armoniosamente in altre opere come la serie dei Buddha Tv dove la sacra statua è posta di fronte a un video vuoto o contenente oggetti comuni come candele o magneti.
Scienza e arte, tecnologia e spiritualità si avviluppano su se stesse come binomi inscindibili in grado di dialogare con i più diversi campi di sperimentazione. In collaborazione con Shuya Abe (studioso di elettronica) Paik costruisce uno dei primi video sintetizzatori a colori mai distribuito, l’Abe-Paik synthetizer, che consente di generare o modificare da frammenti elettronici qualsiasi forma, colore e suono per poi unirli in un nuovo “mondo” televisivo fatto di porzioni di immagini sgranate e sature.
L’apparecchio, prodotto nel 1970, sarà l’elemento portante della famosa mostra alla Bonino Gallery nel 1971 dal titolo Electronic Art III in cui la celebre affermazione dell’artista di trasformare un televisore da passivo passatempo in attiva creazione prende vita. Un principio importante interno alla “filosofia videografica” di Paik è il costante tentativo di umanizzare la tecnica e di tentare una connessione proto cyborg fra macchina e corpo: da questo enunciato si sviluppa il tema del doppio hardware plus software delle celebri azioni di Charlotte Moorman, la violoncellista americana che organizza, dal 1963 al 1982, il New York Avantgarde Festival, e con la quale Nam June Paik collabora intensamente per molti anni. Un altro passaggio fondamentale della sua carriera è l’uso della telecamera portatile, il Portapack della Sony, che l’artista riesce a comprare nel 1965 grazie a una sovvenzione della Fondazione Rockfeller. È con l’aiuto del nuovo supporto tecnologico che l’artista produce il celebre Café Gogo in Greenwich Villane, 152 Bleeker Street, October 4 and 11, 1965, World Theatre, 9. P.M. realizzato dal finestrino di un taxi attraverso le vie di Manhattan durante la visita newyorkese di Papa Paolo VI e mostrato la stessa sera in un locale del Village. Per la prima volta un’artista si confronta con la diretta video, riprende un frammento di vita reale e lo trasforma in opera: un ready made video a tutti gli effetti, la diretta evoluzione tecnologica della dislocazione estetica operata da Duchamp, la ri-presentazione neo avanguardistica dell’eredità indimenticabile dei padri di inizio secolo. La co-presenza di pratiche e linguaggi artistici differenti, la necessaria co-azione dello spettatore, l’assimilazione e l’invenzione di nuove tecnologie a supporto del progetto opera sono i fondamenti della produzione di Paik e costruiscono in itere la costante e rinnovata utopia dell’arte totale in cui lo schermo televisivo è, allo stesso tempo, oggetto e mezzo di un gioco di duplicazioni e invenzioni ancora in crescita.
Dunque (?), probabilmente, il processo di lavoro e il risultato finale hanno poco a che fare…insomma, in nessun lavoro precedente sono stato così felice di lavorare come in questi esperimenti tv. In genere nella composizione prima di tutto abbiamo la visione approssimativa dell’insieme del lavoro (la pre-immagine ideale, o l’IDEA in senso platonico). Così, il processo di lavoro significa lo sforzo torturante di raggiungere questa IDEA ideale. Ma nella tv sperimentale la cosa è totalmente rivista…(Paik, 1965).

FOTO 1 > Global Groove, 1973, video still
FOTO 2 > T.V. Cello with Charlotte Moorman, 1971
FOTO 3 > Nam June Paik

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